Ma che ti serve guadagnare, se perdi il motivo della vita? Che vai avanti per fare, per i figli?
Ma i figli, quando toccherà loro, se n’andranno dove vorranno. Ed è giusto. E allora, tu?
Sì, così: con gli spintoni della buona e della cattiva sorte!
Sì. Lo so, come dite voi, che nessuno nasce imparato.
No, ragazzo mio. Mi meraviglio di te che sei sacrestano e quindi un quasi – prete: un uomo vuole sempre raggiungere la vetta di un colle nella vita, se ne sbagli uno, non fai più in tempo a scalarne un altro.
Sì, per noi il passato è passato per sempre. Ma il passato resta anche in eterno. Sennò, che càvolo ci sta a fare la morte?
Insomma: la morte c’è. Che vuol dire?
Vuol dire che tutto ciò che fai, adesso, in questo istante, finisce. È il limite.
Ecco: ma, nello stesso tempo, vuol dire che ciò che fai resta in eterno, perché ti determina per sempre. La morte è una parabola, un’allegoria.
Sì, un’allegoria che fa male. Un’allegoria assurda, ma, se non ci fosse, così com’è, imprevista e crudele, noi saremmo tanto superficiali da annientarci con le nostre mani.
Antonio De Petro, Fuor della vita è il termine
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